Personaggi

CIACCO

Nel canto VI è il solo che fra i golosi del terzo cerchio si faccia vivo con Dante. Senza cognome, senza famiglia, senza professione, senza storia alcuna. L'appellativo Ciacco si può dire eccezionale: si ha menzione di un Ciacco di Buoninsegna, in un documento del 1264; di un Tuccio di Ciacco, del popolo di San Pier Maggiore, nominato "sindaco per la locazione del carcere dei Magnati" nel 1293; di un Ciacco di Pietro non ulteriormente noto; e infine si conosce l'autore di due contrasti, Giema laziosa e Part'io mi cavalcava, Ciacco dell'Anguillaia, che secondo alcuni critici potrebbe identificarsi col Ciacco di Dante: ma non ci sono prove. Guccio de' Tarlati, personaggio cui Dante fa cenno senza nominarlo (Pg VI 15), è denominato Giaccio dal Buti, e poi dal Vellutello e dal Daniello; Ciacco dal Landino; ma deve trattarsi con ogni probabilità di errore.

Qualche vecchio commentatore considera “Ciacco” come un nome di battesimo, o almeno come una forma abbreviata e familiare. “Ciacco” potrebbe essere un riflesso del francese Jacques. Questa ipotesi si accorda male con una pronuncia visibilmente volgare (consonante schiacciata). Dunque il prestito risulta assai dubbio.

Ciacco potrebbe venir da tutt’altro nome, mal riconosciuto: alterato secondo l'istinto popolare, il quale segue certe vie mutevoli; per esempio: a) pura e semplice aferesi, tipo Drea, Nardo; b) contrazione della consonante iniziale con le sillabe finali, tipo Gianni, Bista, Bice; c) abbreviatura del tipo a con aggiunta, dietro la nuova iniziale, di una desinenza alterativa, tipo Cencio, Duccio, Ghino; d) contrazione di una consonante iniziale, o interna, o magari convenzionale, con la desinenza primitiva o alterativa, tipi: Lello / Lionello; o Baccio / Umbertaccio; o Beco / Domenico, Titta, ecc. Stante questo, nel nome Ciacco possiamo in primo luogo considerare il C come l'iniziale vera (Ciro, Cesario...), o come una protonica interna (Marcello), o meglio come una postonica (Lucio, Felice), ripresa nel derivato per iniziale e protonica; in secondo luogo, considerare la desinenza come uguale a quella di Petracco, Giannacco, Folcacc[hiero]. Quindi: [Feli]ciacco, [Lu]ciacco?

Ci sarebbe così da paragonar “Ciacco” a un altro nome, insieme dantesco e boccaccesco, quello di Tacco, ossia Bertacco (Umberto, Alberto?); e allora il suddetto Ciacco dei Tarlati, o Guccio che sia, potrebbe essere un ex-Arrigo ribattezzato dapprima Gucciacco.

Molto probabilmente, invece, “Ciacco” non era un nome, ma un soprannome.“Voi cittadini mi chiamaste Ciacco” (If VI 52) dà a intendere che tal nomignolo gli è venuto molto tempo dopo il battesimo, non dal suo padrino, ma dai suoi compagni.

Da questo verso si trae la conclusione che Ciacco era nato fuori di Firenze, poiché sembra che subito si voglia appartare dai “cittadini”. E poi Ciacco può contrastare con la maggioranza dei suoi concittadini per molti altri riguardi che il luogo della nascita. L'Alighieri si diceva Florentini natione, non moribus. L'ideale del mos florentinus per Dante, e di certo anche per Ciacco, era il principio assoluto di rifiutare i partiti, che uccidono Firenze. Conviene intendere nel medesimo senso il possessivo la tua città...: una condanna firmata da Dante stesso.

Sarebbe utile sapere a che data si sia applicato al maiale il nome di “Ciacco”. Fino alla metà del Trecento nessuno ha segnalato il preteso valore di “ciacco” nome comune. È probabile che la traduzione sommaria “ciacco” = “porco” non sia altro che il corollario largo, inventivo, di un semplice fatto notato da due critici: “Nella montagna pistoiese, quando chiamano il porco e lo allettano [dicono] nino nino, ciacco ciacco”. Ma “nino nino” non è sinonimo di “porco”: perché vedere un sinonimo in “ciacco ciacco”? Il contadino usa allora un'onomatopea, come quando richiama le pecore sbrancate “ció ció”, o come si chiamano al becchime i pulcini “pio pio”: tale non è il loro nome.

“Ciacco” potrebbe anche definire un carattere fisico. Il verbo “acciaccare” significa “ammaccare”, “schiacciare”; il piatto di una mano che si abbatte fa “ciacche”. Chi sa che il fiorentino Ciacco, semplicemente, non avesse il naso rincagnato? Da questo deriva “naso ciacco”.

Che Ciacco sia stato, in Firenze, famoso per la sua golosità (punita appunto nel Canto VI), lo possiamo credere sull'autorità di Dante. Egli è anche povero, troppo scapigliato, e più spesso famelico che ghiottone di natura. Se Dante ha scelto lui come personaggio principale del canto VI, vuol dire che egli ha il suo posto, sì, nel cerchio dei golosi, ma vuol dire anche, e più probabilmente, che egli è in grado di far sapere certe cose che un altro non avrebbe saputo dire, né avrebbe autorità per dire.

Ciacco non era un “porco” come alcuni hanno detto. Dante non lo avrebbe scelto a portavoce se egli avesse avuto sulla coscienza la minima colpa civica. E siccome tutti i Fiorentini hanno conosciuto Ciacco e lo devono riconoscere, pare evidente che Dante gli fa tenere i discorsi che Ciacco ha realmente tenuti, nei circoli privati almeno. Ha avuto le sue debolezze. Eppure in lui c'era il senso della giustizia.

Quand'egli allude a “due giusti” non ha in mente i loro nomi, e interrogato non li potrebbe dare. Dante non ha l'impudenza di sottintendere qui il proprio nome con quello di un suo amico; il quale poi non è Ciacco. Ma questo verso è un ricordo del Vangelo (Matt. 18, 19-20). E nel verso conta più la conclusione, mezza sottintesa, che il breve accenno alla parola di Cristo, cioè, se in Firenze due giusti si possono incontrare, sono presi fra cento malvagi che non li vogliono intendere, anzi la voce della folla copre quella di Cristo.

Ciacco nomina però quattro o cinque grandi cittadini del tempo delle prime guerre civili, senza chiamarli “giusti” nel significato proprio del termine. Ma questi a modo loro amavano la patria, e il più grande di loro, Farinata, s'è opposto alla distruzione di Firenze.

Nessuno parla intanto di un'attività poetica di Ciacco, e potrebbe questo essere un ulteriore elemento per negare l'identificazione con Ciacco dell’Anguillaia. A meno di non voler dedurre tale attività dalla semplice qualifica di “uomo di corte, cioè buffone”.

Secondo alcuni critici Ciacco fu un banchiere fiorentino nato intorno al 1250.

(da Enciclopedia dantesca, voce Ciacco)

FARINATA DEGLI UBERTI

La figura di Farinata viene soltanto citata nel canto VI ma non approfondita. Dalla lettura del canto si può infatti solo dedurre che egli in vita fu un grande politico (Dante lo cita infatti insieme ad altri buoni amministratori appartenenti alla generazione precedente alla sua) e che si trova in un cerchio più basso dell’inferno.

Le terzine riportate sono quelle dove compare il nome di Farinata nel canto VI:

E io a lui: "Ancor vo’ che mi ’nsegni

e che di più parlar mi facci dono. 78

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca

e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni, 81

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

ché gran disio mi stringe di savere

se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca". 84

E quelli: "Ei son tra l’anime più nere;

diverse colpe giù li grava al fondo:

se tanto scendi, là i potrai vedere. 87

Dante chiede a Ciacco dove si trovano alcuni uomini politici, tra cui Farinata, che sulla terra agirono secondo ragione e giustizia. Dante ha un'alta concezione della politica: non gli importa la fazione di appartenenza degli uomini citati, alcuni sono Ghibellini, altri Guelfi Neri e altri ancora Guelfi Bianchi, ma se in vita hanno operato per il bene del loro popolo e della loro città devono essere considerati dei buoni politici. Però per quanto abbiano agito rettamente in politica rimangono delle anime dannate poiché Dante ci vuole insegnare che a salvare e a dannare è la colpa morale. Per quanto queste anime furono magnanime nel campo della politica, peccarono e non si pentirono e dunque sono poste nell’inferno da Dante.

La figura di Farinata sarà meglio approfondita nel canto X dedicato agli eretici.

CERBERO

Cerbero è il ministro infernale del terzo cerchio dell’Inferno dantesco. Creatura mitologica, figlia di Tifone ed Echidna, è posto nel cerchio dei golosi come guardiano. Dante lo descrive come un cane a tre teste di dimensioni gigantesche e accentua le sue caratteristiche fisiche mostruose seguendo l’ideologia del fantastico medievale. Ha artigli affilati, con i quali scuoia e graffia le anime dannate, occhi rossi e una coda di serpente. Dante gli attribuisce anche qualità umane, come la “barba”, le “mani” e le “facce”. Le tre teste e Cerbero stesso rappresentano i vizi della gola secondo qualità, quantità e continuo; possono rappresentare la voracità, il numero del cerchio oppure le lotte tra le fazioni della città di Firenze.

La figura di Cerbero si trova nella mitologia greca, in quanto uno dei guardiani degli Inferi governato da Ade, e successivamente anche nell’Eneide di Virgilio.

Il mostro infernale era stato domato solo da Ercole e Orfeo: il primo riesce a trascinarlo fuori dall’Ade con una catene in una delle sue dodici fatiche, il secondo lo incanta con la sua musica.

Nell’Eneide, invece, mentre si oppone alla discesa agli Inferi di Enea, è ammansito dalla Sibilla che gli getta un'offa (focaccia) di miele intrisa di erbe soporifere che lo fa addormentare.

Come lo definisce Dante : “Vermo”, “fiera, “demonio”

“Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa.15

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra". 21

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse e mostrocci le sanne;

non avea membro che tenesse fermo. 24

DANTE

In questo canto è facilmente notabile la pietà che Dante prova per questi peccatori; infatti già al verso 48 afferma che la loro è senz’altro una pena molto spiacevole, sebbene alcune siano peggiori.

La pena di Ciacco lo tocca quasi al punto da farlo commuovere, ma l’intento di Dante in qualità di scrittore è, in questo canto, quello di descrivere Firenze come città invidiosa, superba e corrotta (vizi tipici dei mercanti e dei commercianti), e spiegare le cause di questi peccati. La sua visione della città è resa nota da Ciaccio già nelle sue prime battute, in cui paragona Firenze a un sacco traboccante di invidia, ancor prima di rivelare il suo nome a Dante.

L’argomento politico è affrontato attraverso le risposte a tre domande di carattere politico (cosa succederà ai cittadini, se è rimasto qualcuno di giusto in città e quali sono le cause delle discordie tra guelfi bianchi e guelfi neri), con le quali Dante spiega il suo pensiero secondo il quale avarizia, superbia e invidia sono le cause dell’inimicizia tra le due fazioni.

Il fatto che subito dopo Dante nomini dei personaggi politici, sia guelfi sia ghibellini, ed esprima il desiderio di sapere se sono in Paradiso o all’Inferno, ricorda che il suo rispetto per le istituzioni politiche sarà sempre maggiore dell’astio per le fazioni; questo perché, nonostante questi uomini abbiano peccato moralmente, si sono comportati correttamente in politica.

Il canto termina con una domanda teologica posta da Dante a Virgilio mentre escono dal terzo cerchio, riguardante il Giorno del Giudizio Universale: poiché Ciacco aveva detto che i politici citati precedentemente avevano compiuto peccati peggiori, e quindi stavano soffrendo di più, Dante chiede se dopo il Giorno del Giudizio soffriranno di più o di meno.

VIRGILIO

In questo canto di Virgilio si osservano le qualità di conoscenza e il suo potere di neutralizzare i pericoli, ad esempio quando Cerbero vede i due poeti, si avventa loro contro, mostrando i denti, ma Virgilio raccoglie una manciata di terra e gliela getta nelle tre gole e il mostro sembra placarsi, proprio come un cane affamato quando qualcuno gli getta un boccone.

Nel corso del canto inoltre Virgilio ricopre in maniera piuttosto attiva come al solito quella figura di Magister, di Senior e mentore notabile nel resto della cantica: ad esempio Virgilio prende la parola per spiegare a Dante che Ciacco non si solleverà più fino al giorno del Giudizio Universale, quando udirà il suono della tromba angelica. Allora tutti i trapassati si rivestiranno del corpo mortale, ascoltando la sentenza finale che fisserà in eterno il loro destino ultraterreno.

Nella parte finale del canto, mentre i due poeti attraversano la fanghiglia tra le anime, Dante chiede a Virgilio se i tormenti dei dannati aumenteranno dopo il Giudizio, oppure saranno attenuati o resteranno uguali; Virgilio risponde a Dante invitandolo a pensare alla Fisica di Aristotele, in base alla quale quanto più una cosa è perfetta, tanto più è in grado di percepire il dolore e il piacere. I dannati non saranno mai perfetti, tuttavia è logico supporre che dopo la sentenza finale raggiungeranno la pienezza del proprio essere (essendosi riappropriati del loro corpo), quindi implicitamente afferma che le loro pene aumenteranno. La spiegazione di Virgilio ai versi 106-111 si rifà strettamente al commento di san Tommaso d'Aquino al De anima di Aristotele, in quanto cita quasi alla lettera: quanto anima est perfectior, tanto exercet plures perfectas operationes et diversas («quanto più l'anima è perfetta, tanto più numerose e perfette e diverse sono le operazioni che esercita»).

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