Testo

Al tornar de la mente, che si chiuse

dinanzi a la pietà d’i due cognati,

che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati

mi veggio intorno, come ch’io mi muova 5

e ch’io mi volga, e come che io guati.

Quando ripresi i sensi che avevo perso davanti alla pietà provata per i due cognati, che mi aveva turbato per la tristezza, vidi intorno a me nuove pene e nuove anime sofferenti, in qualunque modo io mi muovessi o mi girassi e in qualunque modo io guardassi.

Il canto inizia con Dante che si riprende dallo svenimento essendosi la mente, luogo dove risiede il sonno, risvegliata dopo aver parlato con i due amanti Paolo e Francesca. Mentre ancora è confuso dalla tristezza e dall'angoscia per quegli sventurati (Dante usa il termine pietà, ma con significato, appunto, di angoscia, secondo altre interpretazioni prova pietà perché anche lui ha rischiato di cadere nell'amore passionale prima di essere salvato da Beatrice), vede nuovi dannati e nuove pene tutto intorno a sé.

Novi tormenti e novi tormentati: vi è l’anafora di novi e il poliptoto di tormenti/tormentati

Veggio: palatalizzazione.

Guati: verbo intensivo.

Io sono al terzo cerchio de la piova

etterna, maladetta, fredda e greve;

regola e qualità mia non l’è nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve 10

per l’aere tenebroso si riversa;

pute la terra che questo riceve.

Fui al terzo Cerchio, il Cerchio della pioggia maledetta, fredda e pesante che non aveva mai una misura nè una qualità diversa. Grandine grossa, acqua scura, neve si rovesciavano per l’aria tenebrosa; la terra, che ne riceve, puzza.

Dante e Virgilio si trovano nel III cerchio. Si tratta di un luogo colpito da un’incessante pioggia di grandine sporca e gelida che, mischiandosi con il terreno, crea una disgustosa fanghiglia maleodorante.

L’aggettivo etterna fa riferimento alla tipica eternità infernale e alla pena del senso che subiscono queste anime; esse infatti sono colpite da un’incessante pioggia che non muta mai nè l’intensità nè la qualità. La tempesta è un contrappasso generico, dato che spesso i dannati ne sono vittime.

Si anticipa anche il loro contrappasso per opposizione; come in vita si abbandonarono alla gola, amando cibi raffinati, facendo un uso fine dei sensi, quali il gusto, la vista e l'olfatto, ora sono costretti a giacere in una fanghiglia brutta a vedersi e dall'odore sgradevole.

Grandine grossa: allitterazione

Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa. 15

Cerbero belva crudele e deforme latra con tre gole come un cane sopra la gente qui sommersa.

Cerbero incombe sulla gente qui sotterrata dal fango, dalla pioggia, dalla grandine.

Cerbero: figura atroce, ministro infernale presente già in Virgilio. Già nell’Eneide viene rappresentato in maniera mostruosa e Dante ne accentua i tratti deformati attuando una deformazione espressionistica.

Fiera: Cerbero è un animale, senza connotazioni umane, crudele e diversa, non assomigliando a nessuno per la sua brutalità.

Tre gole: metonimia per le tre bocche.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

Ha gli occhi rossi, la barba unta e oscura, e il ventre grosso e le mani artigliate; graffia gli spiriti, li scuoia e li squarta.

Cerbero: ha gli occhi rossi (Caronte occhi di bragia, If III), la barba unta, perchè si ciba di fango, e nera (il colore scuro acuisce la mostruosità),il ventre largo (la pancia è gonfia perché rappresenta la golosità deformata), e le mani unghiate (termine quasi umano, ma di umano non c'è nulla).

Ed iscoia ed isquarta: metatesi e polisindeto che dà proprio l’idea della continuità dell’azione, della pena.

Urlar li fa la pioggia come cani;

de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; 20

volgonsi spesso i miseri profani.

La pioggia li fa urlare come cani; con un fianco si difendono l’altro dalla pioggia; i miseri golosi si rivoltano spesso

I dannati emettono guaiti, latrati, lamenti a dimostrazione della loro condizione bestiale, si girano spesso da uno dei due lati cercando di farsi schermo, ma non hanno una minima diminuzione di pena, di dolore.

Profano: da procul a fano, cioè lontano dal tempio. Per noi oggi i profani sono coloro che non credono; qui in accezione più ampia sono coloro che peccano, lontani da ciò che è sacro.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse e mostrocci le sanne;

non avea membro che tenesse fermo.

Quando Cerbero, il grande animale, ci scorse, aprì le sue bocche e ci mostró i denti; non teneva fermo nemmeno un solo membro.

Vermo: dà l’idea dello squallore, della deformazione di Cerbero

Non avea membro che tenesse fermo: dà l’idea dell’irrazionalità, della bestialità vuole fare paura, come anche gli altri ministri.

E ’l duca mio distese le sue spanne, 25

prese la terra, e con piene le pugna

la gittò dentro a le bramose canne.

A questo punto Virgilio distese le sue braccia fino a prendere dal suolo della terra che, con i pugni pieni, lanciò nella bramosa gola di Cerbero.

Quando Cerbero vede Dante avvicinarsi scortato da Virgilio, inizia ad abbaiare e a ringhiare, ma Virgilio non si lascia intimorire e, per farlo tacere (come era successo anche con i ministri infernali Caronte e Minosse nei canti precedenti) e permettere di continuare il viaggio, lancia nelle sue fauci una manciata di fango. Questo gesto è simbolico e riprende l’episodio dell’Eneide virgiliana in cui Enea, all’ingresso del regno degli inferi, deve sfamare il cane a tre teste Cerbero con delle focacce soporifere per poter continuare il suo viaggio. Si riprende così il famoso tema, ricorrente in tutta la cantica dell’Inferno e del Purgatorio, di Virgilio inteso come grande letterato e guida di Dante nel suo viaggio ultraterreno (qui chiamato con l’appellativo duca mio), grazie al quale Dante afferma sé stesso come degno continuatore della letteratura classica.

Duca: Virgilio (altre denominazioni sono guida, maestro, dottore, autore, segnore).

Canne: le tre gole di Cerbero.

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,

e si racqueta poi che ’l pasto morde,

ché solo a divorarlo intende e pugna, 30

cotai si fecer quelle facce lorde

de lo demonio Cerbero, che ’ntrona

l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

Come il cane che abbaiando dimostra la sua fame e si calma solo dopo aver consumato il pasto, poiché è tutto intento e si preoccupa solo di divorarlo, così si comportarono le tre luride teste del demonio Cerbero, che urla alle anime tanto che esse vorrebbero essere sorde.

Dante, per drammatizzare la scena, inserisce in queste due terzine un paragone canino: compara la voracità con cui un cane si abbatte sul suo cibo con quella di Cerbero quando Virgilio gli lancia il fango.

Facce: rappresentano i musi canini di Cerbero; il termine è usato per l’uomo ma fa riferimento al carattere umano del demonio Cerbero e quindi alla sua degradazione. Inoltre le facce di Cerbero sono tre e hanno un significato totalmente anticristiano, non evocando in questo contesto il numero trinitario legato a Dio.

Noi passavam su per l’ombre che adona

la greve pioggia, e ponavam le piante 35

sovra lor vanità che par persona.

Noi camminavamo sopra le ombre su cui si abbatteva una forte pioggia, e posavamo i nostri piedi sopra le loro forme vuote, che hanno solo l’apparenza dei corpi reali.

Dante e Virgilio continuano il loro viaggio inoltrandosi nel terzo cerchio, quello destinato ai golosi (coloro che hanno peccato di gola). Essi camminano su un tappeto di anime, che Dante afferma, indirettamente, essere “aereo-passibili”: i dannati non possiedono più un corpo fisico, sono delle anime, degli spiriti, che tuttavia sono passibili al dolore. Infatti l’eterno castigo dei dannati consiste proprio per subire una pena del senso, cioè fisica, per l’eternità, diversa a seconda del peccato compiuto in vita.

Piante: piante dei piedi.

Lor vanità che per persona: descrizione del corpo aereo passibile delle anime dannate.

Elle giacean per terra tutte quante,

fuor d’una ch’a seder si levò, ratto

ch’ella ci vide passarsi davante

Esse giacevano tutte per terra, eccetto una che si alzò mettendosi a sedere non appena ci vide passare.

Dante ci descrive la condizione delle anime dei golosi, costrette a stare ammassate per terra sotto una pioggia incessante di acqua, neve e grandine. D’un tratto però una di queste anime si solleva da terra: è Ciacco, goloso fiorentino che Dante presenterà nei versi successivi.

Dal momento che nell’Inferno comanda il Dio dell’Antico Testamento, giusto, severo, non c’è cosa che vi sia fatta fuori dalla sua volontà. Anche in questo caso perciò è proprio Dio a volere che l’anima di Ciacco si sollevi da terra per parlare con Dante sulla loro città natale: Firenze. Il canto VI dell’Inferno è infatti il canto dedicato esclusivamente alla politica. Anche i canti VI delle altre due cantiche trattano di argomenti politici: nel Purgatorio l’oggetto del dibattito è l’Italia mentre nel Paradiso è la aspra guerra tra guelfi e ghibellini che si protraeva ormai da diversi decenni sul suolo italico (rispetto all’anno in cui Dante scrisse l’Inferno, ovvero intorno al 1305-1307/8).

"O tu che se’ per questo ’nferno tratto",40

mi disse, "riconoscimi, se sai:

tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto".

«O tu che sei condotto per questo inferno», mi disse, «riconoscimi, se riesci: tu nascesti prima che io morissi».

Ciacco, una volta riconosciuto Dante, quasi in maniera faceta gli chiede di riconoscerlo, perché è nato prima che lui fosse morto (disfatto). Ma Dante non poteva riconoscerlo perché Ciacco era completamente deformato, squartato e lordo di melma. Inoltre Ciacco era personaggio molto gaudente in vita, raccontava storie, si faceva apprezzare, era un imbucato ai banchetti ma apprezzato e mantiene questa ironia anche nell’inferno, nonostante questa non sia una caratteristica tipica dell’inferno.

O tu che sei condotto: l’anima aveva notato che c’era Virgilio.
Riconoscimi se sai: Dante molto probabilmente lo conosceva
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto: disfatto, da disfare, significa morire, essendo il disfacimento la consunzione fisica del corpo.

E io a lui: "L’angoscia che tu hai

forse ti tira fuor de la mia mente,

sì che non par ch’i’ ti vedessi mai. 45

E io a lui: «La sofferenza che tu provi forse ti cancella dalla mia memoria, tanto che non mi pare di averti mai visto.

L’angoscia, da angere, cioè stringere, non è solo morale, ma anche fisica. Tutto il volto di Ciacco infatti è costretto all’interno del dolore e ciò impedisce a Dante di riconoscerlo subito.

E io a lui: stilema.

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente

loco se’ messo, e hai sì fatta pena,

che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente".

Ma dimmi chi sei, tu che sei stato messo in un luogo così doloroso e subisci una tale pena, che, se qualcun’altra è superiore, nessuna è tanto spiacevole».

Dante sottolinea che nessuna pena è così spiacevole, non tanto perchè dolorosa, ma perchè è infima, degradante, umiliante.

Dolente loco: ipallage.

Ed elli a me: "La tua città, ch’è piena

d’invidia sì che già trabocca il sacco, 50

seco mi tenne in la vita serena.

Ed egli a me: «La tua città, ch'è piena di invidia al punto che il sacco ne trabocca, mi ebbe con sé durante la mia vita serena.

Ciacco dice di essere della stessa città di Dante, cioè Firenze, che qui viene rappresentata come un sacco pieno di invidia che trabocca, e sottolinea la differenza tra la situazione attuale e la vita serena, cioè la vita terrestre. La discrasia è nettissima tra ciò che era in vita e quello che deve subire adesso.

L’invidia è il primo dei peccati e dei vizi fiorentini citati. Dante attribuisce, a causa della ricchezza e della mercatura, inoltre i vizi di superbia e di avarizia a Firenze.

Ed elli a me: stilema.

Voi Cittadini mi chiamaste Ciacco

per la dannosa colpa de la gola,

come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

Voi fiorentini mi chiamaste Ciacco: a causa della colpa della gola, come vedi, sono fiaccato dalla pioggia.

Ciacco parla con Dante riferendosi cittadino della città in cui egli stesso viveva, avendo riconosciuto la cittadinanza di Dante. Il nome Ciacco è collegato a diversi significati come Jacques, nome della Provenza.

E io anima trista non son sola, 55

ché tutte queste a simil pena stanno

per simil colpa". E più non fé parola.

E io non sono l'unico dannato qui, poiché queste altre anime sono soggette alla stessa pena per lo stesso peccato». Poi non disse più nulla.

Ciacco sta parlando con Dante, ma mentre lo fa non è cosciente, è privo di volontà e può fare questo colloquio solo perché Dio lo permette, in alternativa è lì come tutte le anime, cioè solo per soffrire e non ragionare. Ciacco infatti ad un certo punto strabuzza gli occhi e cade come un sasso nella melma e Dante deve sollecitarlo per farlo rialzare, anche se questo colloquio, come detto, è voluto da Dio.

Io li rispuosi: "Ciacco, il tuo affanno

mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;

ma dimmi, se tu sai, a che verranno 60

li cittadin de la città partita;

s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione

per che l’ha tanta discordia assalita».

Io risposi: «Ciacco, il tuo affanno mi angoscia al punto che mi viene da piangere; ma dimmi, se lo sai, a quale esito arriveranno i cittadini della cittá divisa; se vi é in essa almeno qualcuno che sia giusto, e dimmi la causa prima per cui tanta discordia l’ha assalita.

Con questi versi Dante fa profetizzare a Ciacco il destino di Firenze ponendogli tre domande in particolare:

1.quali saranno le azioni dei fiorentini;

2.se vi é fra loro ancora qualcuno di giusto e onesto;

3.perché Firenze é stata assalita dalla discordia.

E quelli a me: «Dopo lunga tencione

verranno al sangue, e la parte selvaggia 65

caccerà l’altra con molta offensione.

E quello a me: «Dopo una lunga contesa verranno allo scontro violento, e la parte del contado caccerà l'altra con gravi danni.

Alla prima domanda di Dante Ciacco risponde affermando che dopo un lungo scontro in Piazza Santa Trinita a Firenze tra la famiglia dei Cerchi, (considerata “selvaggia” perché del contado e fazione di guelfi bianchi) e la famiglia dei Donati di fazione nera, i bianchi prevarranno sui neri riuscendo a cacciarli da Firenze.

E quelli a me: stilema.

Poi appresso convien che questa caggia

infra tre soli, e che l’altra sormonti

con la forza di tal che testé piaggia.

Poi è destino che i Bianchi cadano prima di tre anni, e che l'altra parte prenda il sopravvento con l'aiuto di un uomo che, ora, si tiene in bilico fra le due fazioni.

Ciacco profetizza che nel giro di tre anni (1300-1303) i neri prenderanno il potere con Corso Donati che diventerá priore a Firenze grazie all’aiuto di Papa Bonifacio VIII (colui che testé piaggia) che offrirà aiuto ai Neri e li agevolerà nel controllo della cittá. É da notare inoltre che questa narrazione é una narrazione post-factum in quanto Dante mentre scrive é già a conoscenza dei fatti poiché sono giá accaduti, dato che Dante compose l'Inferno tra il 1304-05 e il 1306-07.

Caggia: palatalizzazione.

Alte terrà lungo tempo le fronti, 70

tenendo l’altra sotto gravi pesi,

come che di ciò pianga o che n’aonti.

I Neri resteranno a lungo al potere, opprimendo i Bianchi con pesanti condanne, nonostante le loro lamentele.

Nonostante le lamentele e lo sdegno dei Bianchi, con questa metafora Dante afferma come i Neri continueranno a prevalere e ad avere il controllo a Firenze grazie all’aiuto del Papa.

Giusti son due, e non vi sono intesi;

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi». 75

I fiorentini giusti sono solo due e nessuno li ascolta; superbia, invidia e avarizia sono le tre scintille che hanno acceso i cuori».

Ciacco risponde alla seconda domanda di Dante affermando che ci sono ancora “due giusti” a Firenze, e tali potrebbero essere:

1. Le leggi umane (che i Neri non rispettano governando a loro piacimento).

2. La giustizia divina (non seguita dal Papa).

3. Dante e Cavalcanti (che non sono ascoltati).

Inoltre, con la metafora della scintilla che accende i cuori, Dante fa dire a Ciacco che i fiorentini si odiano per tre peccati, gli stessi rappresentati dalle tre fiere dei primi canti, rispondendo così alla terza e ultima domanda spiegando i motivi per cui Firenze é stata assalita dalla discordia, e tali sono:

1.La superbia, rappresentata dal leone.

2.L'invidia, rappresentata dalla lonza.

3.L'avarizia, rappresentata dalla lupa.

Qui puose fine al lagrimabil suono.

E io a lui: "Ancor vo’ che mi ’nsegni

e che di più parlar mi facci dono.

Qui interruppe le parole dolorose. E io a lui: "Voglio che tu mi dia ancora nuove informazioni e che mi faccia dono di ulteriori discorsi."

Ciacco finito di rispondere torna nel silenzio, ma Dante gli chiede un’ulteriore specifica.

Lagrimabil suono: parole che portano alle lacrime.

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca 80

e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

Farinata e Tegghiaio, che furono così degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca e gli altri che impegnarono la loro mente nell'operare per il bene civile e sociale di Firenze,

Troviamo un elenco di nomi di politici fiorentini della generazione precedente rispetto a Dante (Farinata lo troviamo anche nel canto X). Farinata degli Uberti (in realtà Manente degli Uberti) fu capo ghibellino e Dante lo incontrerà nel VI cerchio, quello degli eretici. Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, podestà di San Giminiano e di Arezzo, è condannato nel cerchio VII dei sodomiti, assieme a Jacopo Rusticucci, mentre Mosca dei Lamberti, podestà di Reggio, si trova nella nona bolgia dell'VIII cerchio, quella dei seminatori di scandalo e scismi. Non si è tuttavia bene identificato quell'Arrigo che, stando agli antichi commentatori, potrebbe appartenere alla famiglia dei Fifanti. Questi politici furono qualcuno guelfo, qualcuno ghibellino ma tutti si comportano secondo virtù e coerenza, ciò a sottolineare l'alta concezione politica dantesca: non importa la fazione a cui si appartenga se si opera per il bene dei propri cittadini.

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

ché gran disio mi stringe di savere

se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca".

dimmi dove sono e fa' in modo che possa sapere di loro; poiché mi spinge un gran desiderio di sapere se il Paradiso li renda partecipi della sua dolcezza o l'Inferno li avveleni”.

Dante chiede a Ciacco dove sono queste anime politiche, se in Paradiso o all’Inferno. Dante sembrerebbe mettere quindi in relazione la salvezza della persona con la sua azione politica (se si opera seguendo giustizia e virtù si è salvi).

Ciacco però gli risponde che tutte queste anime sono nell’Inferno anche se sono state politicamente ineccepibili e così Dante ci vuole comunicare con questi esempi che a salvare e a dannare è la colpa morale, cioè come ci si comporta in vita sotto un punto di vista morale. Nonostante fossero gran politici che volevano il bene di Firenze, peccano moralmente, e non essendosi pentiti, finirono all'Inferno.

Addolcia: neologismo dantesco.

Attosca: tosco è un veleno, quindi attoscare significa letteralmente avvelenare.

Dimmi ove sono e fa ch’io li conosca: la richiesta di Dante ha una certa perentorietà, dovuta probabilmente al coinvolgimento personale del poeta nelle vicende politiche fiorentine e quindi alla sua sete di sapere cosa ne è stato dei possibili benefattori della città.

E quelli: "Ei son tra l’anime più nere; 85

diverse colpe giù li grava al fondo:

se tanto scendi, là i potrai vedere.

E quegli a me: "Essi sono tra i dannati macchiatisi delle più gravi colpe, peccati diversi pesano su di essi costringendoli nei cerchi più bassi dell'Inferno: se scendi tanto quanto essi sono in basso, li potrai vedere laggiù."

Se le anime sono più nere, quindi la loro condota morale in vita non fu ineccepibile, il peccato è più grave e dunque i cerchi in cui si trovano sono più bassi.

E quegli a me: stilema.

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,

priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:

più non ti dico e più non ti rispondo". 90

Ma quando tu tornerai sulla dolce terra, ti prego di portarmi alla memoria degli altri sulla terra: non ti dico più altro, e non ti rispondo più."

Ciacco vuole essere ricordato a differenza delle altre anime anime che si vergognavano di essere ricordati a causa dei peccati compiuti. Infatti Ciacco stesso era faceto, ironico, irridente e vuole essere ricordato sulla terra quasi per scherzo.

Tace per sempre: Dio ha deciso che il suo colloquio con Dante finisce qui.

Dolce mondo: ipallage per il mondo terreno.

Dolce: per i dannati, ancor più per i peccatori di gola, la vita terrena è "dolce" se messa in rapporto con la dannazione eterna.

Priegoti: legge Tobler-Mussafia.

Li diritti occhi torse allora in biechi;

guardommi un poco e poi chinò la testa:

cadde con essa a par de li altri ciechi.

Allora girò obliquamente gli occhi che stavano guardando dritto verso di me; mi guardò un poco e poi abbassò il capo; cadde riverso con il capo allo stesso modo degli altri dannati immersi nel fango, e quindi incapaci di vedere.

Strabuzza gli occhi senza coscienza, guarda Dante in maniera ebete con lo sguardo vitreo e torna nell’infimo, fetido, squallido fango insieme agli altri golosi ciechi, quindi privi di Dio.

Guardommi: legge Tobler-Mussafia.

E ’l duca disse a me: "Più non si desta

di qua dal suon de l’angelica tromba, 95

quando verrà la nimica podesta:

E il maestro mi disse: «Non si rialzerà più, fino al suono della tromba angelica, quando verrà la potestà nemica:

Virgilio dice a Dante che Ciacco si sveglierà solo quando suonerà la tromba degli angeli con il giudizio universale alla fine dei tempi.

Nimica podesta: Dio, nemico dei dannati.

Duca: uno degli appellativi di Virgilio.

ciascun rivederà la trista tomba,

ripiglierà sua carne e sua figura,

udirà quel ch’in etterno rimbomba".

ciascuno di essi rivedrà la triste tomba, si rivestirà del proprio corpo mortale, ascolterà la sentenza finale».

Dopo il giudizio universale l’anima si riunirà con il corpo, ma non quello fisico, bensì quello glorioso. Tutte le anime quindi andranno dove si trova il loro sepolcro, riacquisteranno la loro corporeità, si recheranno presso la valle di Giosafat dove udiranno "quello che rimbomba in eterno ovvero", ovvero la loro sentenza. Infine le anime verranno rimandate nell’inferno a soffrire.

Rivederà: epentesi.

Trista tomba: allitterazione e ipallage.

Rimbomba: verbo onomatopeico.

Sì trapassammo per sozza mistura 100

de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,

toccando un poco la vita futura;

Così oltrepassammo la sozza mescolanza delle anime e della pioggia, a passi lenti, parlando un poco della vita ultraterrena;

Dante e Virgilio camminano sulle anime bagnate dalla pioggia parlando della loro vita futura.

Sì trapassammo per sozza mistura: asper concursus, scontri consonantici, termini crudi, rime aspre e chiocce, quindi molto complicate. Pure il lessico musicale dà l’idea della crudezza della situazione.

per ch’io dissi: "Maestro, esti tormenti

crescerann’ei dopo la gran sentenza,

o fier minori, o saran sì cocenti?" 105

allora dissi: «Maestro, queste pene aumenteranno dopo la sentenza finale, o diminuiranno, o resteranno immutate?»

Dante pone la prima quaestio teologica della Commedia per inquadrare il suo oltremondo fantastico su delle basi teologiche, stabilendo così un nesso fra fantasia e realtà. Tale quaestio è se le pene saranno maggiori, minori o uguali dopo il giorno del giudizio.

Esti tormenti: pena del senso.

Gran sentenza: giudizio universale.

Ed elli a me: "Ritorna a tua scïenza,

che vuol, quanto la cosa è più perfetta,

più senta il bene, e così la doglienza.

E lui a me: «Torna alla tua scienza, secondo la quale, quanto più una creatura è perfetta, tanto più sentirà il piacere e il dolore.

Aristotele, che qui viene apostrofato con "tua scienza" per il fatto che era ben noto a Dante, parla nell’Etica di sinolo, cioè unione di anima e corpo, quindi i due elementi che compongono il corpo dell'uomo. Durante la dannazione, i dannati ricongiungendosi con il corpo glorioso raggiungono una maggiore perfezione e di conseguenza le anima beate saranno più beate e quelle dannate soffriranno di più.

Ed elli a me: stilema.

Tutto che questa gente maladetta

in vera perfezion già mai non vada, 110

di là più che di qua essere aspetta".

Anche se questi dannati maledetti non saranno mai perfetti, tuttavia dopo il Giudizio raggiungeranno la completezza del loro essere».

I dannati hanno una maggiore perfezione ma comunque mantengono una perfezione minore rispetto a quelle beate perché non potranno mai vedere dio, facendo accrescere così in loro la pena del danno. Come disse San Tommaso d’Aquino: "La congiunzione del corpo all’anima aggiunge all’anima una certa perfezione, poiché ogni parte, presa per suo conto, è imperfetta, e si completa nella totalità."

Noi aggirammo a tondo quella strada,

parlando più assai ch’i’ non ridico;

venimmo al punto dove si digrada:

Noi percorremmo il Cerchio in tondo, dicendo molte altre cose che non riferisco; e venimmo al punto in cui si scende nel IV Cerchio:

Si muovono a tondo perchè il cerchio è a forma circolare, costeggiando così il perimetro, e inoltre "digradano", cioè scendono verso il basso verso luoghi sempre più stetti, essendo l'Inferno a forma di cono rovesciato che termina con Lucifero, dalle cui gambe, come si noterà nell'ultimo canto, Dante e Virgilio scenderanno attraverso la natural burella per giungere così sulla spiaggia del Purgatorio.

Inoltre parlano di altre cose di cui non fa riferimento, come quando disse:“ parlando cose che ’l tacere è bello” (If IV).

quivi trovammo Pluto, il gran nemico. 115

e qui trovammo Pluto, il gran nemico.

Scalando in un nuovo cerchio Dante e Virgilio si imbattono in un nuovo ministro infernale, quindi un nuovo nemico: Pluto. Quest'ultimo è il dio della ricchezza, figlio di Giasone e Demetra e nacque a Creta. Secondo qualche leggenda fu accecato da Zeus e iniziò così a sperperare senza senno le proprie ricchezze. Il nome infine serve come ponte fra questo canto e il VII, che inizia con le parole demenziali dello stesso Pluto.
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